Il Cisterna Film Festival è giunto alla sua terza edizione e, a pochi mesi dalla kermesse che si terrà il 21, 22 e 23 luglio a Palazzo Caetani, ecco svelata la nuova immagine manifesto di quest’anno.
In linea con la consuetudine di affidare l’immagine rappresentativa dell’edizione in corso ad un artista locale, quast’anno la scelta è ricaduta su Alessandro Comandini, fotografo di Cisterna di Latina. Ecco cosa ci ha raccontato riguardo la sua formazione e il suo rapporto con il cinema, ma soprattutto riguardo questo scatto particolarissimo, dalla lunga storia e pieno di vita.
Puoi parlarci di questa foto?
Questa foto nasce da un ritrovamento: la scorsa estate stavo liberando un magazzino ed in una vecchia valigia (lo so, sembra un film…) ho ritrovato delle scatole di diapositive. Le ho aperte incuriosito ma purtroppo erano irrimediabilmente rovinate, non più leggibili, completamente corrose dall’umidità, dagli sbalzi di temperatura e dal tempo. Si trattava di un set di diapositive di mio padre, probabilmente utilizzate per un congresso scientifico sul carcinoma della mammella. Guardandole con attenzione una ad una mi sono accorto che alcune di queste diapositive non contenevano più immagini di malattia e corpi martoriati, dati di sopravvivenza e tecniche chirurgiche, ma erano diventate altro, si erano trasformate in colori e forme vibranti. Avevano deciso di cambiare significato e adesso, a trent’anni di distanza, non raccontavano più il dolore, bensì la bellezza e la vita. Ma non mi bastava, e così per completare la rinascita ho sovrapposto quelle diapositive a delle immagini scattate più di recente, su pellicola in bianco e nero. La foto selezionata per il manifesto del Cisterna Film Festival è una di quelle immagini rinate.
Chi è il soggetto ritratto?
Non ha importanza, ora quella fotografia è un manifesto e mi piace pensare che quella figura, sommersa di colori, possa vivere di vita propria, come immagine e non come il ritratto di una persona specifica.
Come hai iniziato a fotografare e quali sono i tuoi soggetti preferiti?
Ho iniziato presto, alle scuole medie, dove frequentai un corso di camera oscura, e da allora non ho più smesso di fotografare e stampare le mie fotografie. Ricordo che le prime le scattai nell’ambulatorio di mio padre e il negativo lo sviluppò Pietro Rolletti, il mio maestro. Il bianco e nero allora era una scelta quasi obbligata, ma anche dopo l’avvento del digitale (che pure apprezzo e utilizzo), ho continuato a vedere e scattare in bianco e nero. Lo ritengo un linguaggio universale e “fisiologico” e non soltanto una scelta tecnica o stilistica. Tra i miei generi preferiti c’è sicuramente il ritratto, ma trovare soggetti da fotografare, soprattutto all’inizio, non era facile, così iniziai ad esplorare il mondo dell’autoritratto, che non ho più abbandonato. Un tema affascinante, ben altro rispetto al “selfie”, e forse non è noto a tutti che in Italia, a Senigallia, c’è un museo (il MUSINF) con una sezione dedicata all’autoritratto fotografico (dove sono conservate due mie fotografie). Legato al tema dell’auto-ritratto, sento molto vicino alla mia ricerca personale il tema dell’identità e della rappresentazione consapevole di sè. Un tema particolarmente importante, nell’era dei social, a cui sto lavorando da qualche anno. “Be a Muse”, la mostra realizzata con i ragazzi de “Il Ponte”, fa parte di questa progettualità.
Il tuo rapporto con il cinema? Quali sono i registi che ami di più?
Confesso subito: non sono un cinefilo, ma posso dire di amare il buon cinema. Nel cinema, come nella fotografia, prediligo un certo rigore formale e apprezzo la buona “fotografia”. Per quanto mi riguarda, un film potrebbe essere girato per intero con la cinepresa fissa. Tra i miei registi preferiti includo sicuramente Antonioni e Scola. Forse non c’è bisogno di aggiungere che non amo gli effetti speciali…
Il cinema mi piace vederlo “al cinema” e trovo un’incredibile involuzione che la fruizione delle immagini (non soltanto dei film, ma anche delle fotografie), avvenga sempre più spesso su dispositivi di piccole dimensioni, come i cellulari o i tablet. Siamo passati dal cinemascope ad uno schermo di pochi pollici, da un tempo in cui le foto 10x15 erano considerate poco più che provini, alle foto ridimensionate, filtrate e compresse su Instagram. Siamo sempre meno esigenti, ma soprattutto queste modalità di fruizione delle immagini allontanano da una condivisione vissuta insieme (social) l’esperienza visiva. Una sala cinematografica, una mostra, sono forme di fruizione interattive e vive, offrono occasioni di discussione, scambio di opinioni, impongono la condivisione degli spazi e la giusta distanza di osservazione. Guardare un film con le cuffiette, sullo schermo di un cellulare, o scorrere le immagini sullo smartphone non è la stessa cosa.
Come, secondo te, sono legati cinema e fotografia?
Nonostante il cinema sia, tecnicamente, un rapido susseguirsi di fotogrammi, tale da generare un idea di movimento, credo che cinema e fotografia rappresentino due modalità espressive interconnesse ma anche molto differenti. Il fattore tempo è forse la chiave per delineare un distinguo tra queste due arti: un regista ha la possibilità di raccontare la storia (e di catturare l’attenzione dello spettatore) disponendo di un lasso di tempo generalmente più lungo di quello racchiuso in una fotografia (nella quale il tempo è limitato ad una frazione di secondo, al tempo di scatto). Inoltre lo spettatore di un film è disposto a sedersi e a seguire il racconto, mentre la fruizione delle immagini fotografiche è, soprattutto oggi, estremamente superficiale e veloce. Il cinema utilizza un linguaggio più complesso, fatto di immagini ma anche musiche, dialoghi, effetti speciali, espedienti narrativi che possono spostare il racconto nel tempo (flashback) e nello spazio (cambi di scena). Tutto questo la fotografia non può farlo, deve raccontare la storia in un’immagine (o al più in una sequenza di immagini, nel caso di una mostra o un libro fotografico). La fotografia è necessariamente legata alla vista e la costruzione dell’immagine deve fornire la giusta chiave di lettura al fruitore. Ma questo rigore, questa essenzialità, non è detto che racconti la verità. Esattamente come il cinema.