Il Cisterna Film Festival è pronto a tornare con una nuova e ricca edizione. A causa dell’epidemia di Covid-19 che ha investito il mondo, il festival cambia date rispetto al solito: l’appuntamento è a Palazzo Caetani dal 27 al 30 agosto 2020, nel pieno rispetto delle norme vigenti connesse all’emergenza coronavirus. I posti saranno limitati e sarà obbligatoria la prenotazione. La novità è rappresentata da una serata pre-festival che si terrà a Cori, sabato 22 agosto a partire dalle 21 in piazza Sant’Oliva, durante la quale saranno proiettati alcuni dei corti più acclamati dal pubblico delle scorse edizioni.
E infine eccolo, il nostro nuovo manifesto. Come sempre abbiamo voluto dar lustro alle eccellenze del territorio, e allora anche quest’anno abbiamo scelto di adottare l’immagine di un artista locale, il fotografo Marco Mulattieri, classe 82, di Cisterna di Latina, che per molto tempo ha vissuto negli Usa. Ecco una breve intervista per conoscere meglio lui e il suo stile.
Lo scatto scelto come immagine copertina di questo Cff è molto rappresentativa dell’anno che stiamo vivendo, tra distanziamento e lockdown dovuti al Covid-19, ma in realtà risale a tempi non sospetti: quale è la gestazione dello scatto, come è nato?
Non ricordo il contesto di quello scatto. Era una festa nazionale, credo, ma ricordo benissimo il centro della città dove vivevo completamente vuoto. Ed era un po’ la normalità: Cincinnati non aveva un cuore pulsante, era una piena di solitudine con alcuni segni di vita attorno. Quando è arrivato il Covid, fare distanziamento sociale – almeno all’esterno – non era nulla di nuovo, era il quotidiano. Quando ho scattato questa foto non avevo fatto neppure troppo caso a quel vuoto, perché ne ero probabilmente abituato. Ma ora, riguardandola, colpisce pure me!
Hai trascorso molto tempo negli Usa: come ha influito questo sul tuo stile e sulla tua formazione?
Stare negli USA ha avuto un impatto positivo per quanto riguarda la pragmaticità e l’organizzazione. Gli americani del Midwest – dove vivevo io – sono persone pratiche, concrete. Si trovano amici a seconda dei propri interessi, non perché si va a scuola assieme o perché si vive nello stesso quartiere. Quindi nel mio gruppo di amici, tutti fotografi e videografi, si parlava di fotografia, si organizzavano uscite, shootings, ecc. La parte negativa era la poca creatività: tutti copiavamo da qualcuno, ma nessuno cercava di trovare idee nuove. Ci avrò impiegato almeno quattro anni per realizzare che se facevo quello che facevano tutti gli altri, sarei stato esattamente uguale a tutti gli altri.
Come sei arrivato alla fotografia e quale è il tuo rapporto con il cinema?
Io uso la fotografia per ricordare le persone che incontro e gli stati d’animo che provo. Ho poche foto dei miei primi 30 anni ed è un peccato perché sento che mi mancano pezzi delle mie esperienze passate. Da quando fotografo, invece, sono molto più presente a me stesso e all’altro/a. Mi sento intero, autentico. Anche se la camera potrebbe sembrare una barriera sul mondo esterno, per me è una porta. Per quanto riguarda il cinema, la risposta è più complessa: dal punto di vista estetico, guardo tantissimo la fotografia, cerco di “rubare con l’occhio”, prendere ispirazione. Dal punto di vista del soggetto, guardo molto la profondità psicologica dei personaggi, lo sviluppo narrativo-organico, la cura dei dettagli. Per questo prediligo le serie tv, perché gli sceneggiatori hanno più “tempo” per sviluppare i personaggi. Differentemente dal leggere un libro, che per me è faticosissimo, io non mi stanco letteralmente mai di guardare film o serie tv. Ciò detto, sento che la mia cultura cinematografica è ancora relativamente scarsa, e troppo mainstream, e ho davvero tanto desiderio di approfondirla!
Ti sei dedicato molto ai ritratti,e in molti di essi è presente un “sapore di passato” dovuto alla scelta della luce e dei colori predominanti dell’immagine. È un modo di conferire alle tue foto “atemporalità”?
L’aspetto un po’ vintage delle mie foto è dovuto a quel senso di autenticità che mi ha fatto cominciare a scattare. Non ho problemi a ritoccare le mie foto, a volte anche pesantemente, ma alla fine del processo, voglio che l’immagine sembri spontanea, semplice, vera. Forse perché appartengo ancora alla generazione cresciuta con le macchine a rullino, prima che Photoshop e tutti i marchingegni che usiamo oggi ci convincessero che il futuro digitale sarebbe stato migliore. Nel gergo comune, “phoshoppato” significa falso. Ed è davvero un peccato. Mi piace invece che la gente guardi una mia foto e colga la stessa semplicità e bellezza che ho visto io mentre scattavo. Qualcosa del tipo “vieni pure, puoi fidarti di me”.